Home » Il territorio » Luoghi » Chiesa e convento di S. Francesco (o dell'Annunziata)

Chiesa e convento di S. Francesco (o dell'Annunziata)

Il complesso conventuale fu realizzato, al volgere del Quattrocento, per volere di Antonio Carafa Principe di Stigliano e Duca di Mondragone e Maddaloni, che lo donò ai Padri Osservanti dell’ordine francescano, ai quali appartenne fino al 1809, anno in cui fu soppresso a seguito della legge napoleonica sull’eversione dei diritti feudali ed ecclesiastici sui beni di loro proprietà.

La Chiesa dell’Annunziata restò, dopo la confisca, chiusa per alcuni anni, essendo divenuta di proprietà privata, anche se vi si continuavano a svolgere funzioni religiose. Soltanto nel 1917 fu acquistata, con propri denari, dal sacerdote Gravano, che ne fece uso privato fino a quando non vi trasferì l’angusta parrocchia di San Rufino intra moenia, di cui era sacerdote. Dopo che la chiesetta presso la Porta di Mare fu restaurata e riaperta al culto, nella chiesa di San Francesco continuò ad essere officiata messa dal Gravano, senza mai valutare l’ipotesi di devolvere la struttura di culto alla Diocesi, nonostante le insistenti richieste dell’allora vescovo di Sessa Aurunca. Fu soltanto prima della sua dipartita che il sacerdote decise di donarla all’Ordine dei frati francescani. Purtroppo, dopo aver avuto diverse destinazioni d’uso pubbliche, oggi la struttura claustrale è di proprietà privata e, nonostante sia protetta da un vincolo (giunto solo nel 1984), è nascosta agli occhi del pubblico e versa in un preoccupante stato di abbandono.

L’edificio di culto presenta una facciata arretrata rispetto alla quinta stradale che prospetta su via Elena, al fine di possedere uno spazio con funzione di sagrato, ossia l’originaria piazza San Francesco, oggi chiusa da un’inferriata che ne ha trasformato radicalmente il significato urbanistico. In origine, infatti, la piazza era uno spazio aperto che consentiva una migliore fruizione dell’edificio, esaltandone i ritmi di facciata. Un suo elemento caratteristico era una base tronco-piramidale posta all’angolo della facciata, a sostegno di una torre campanaria, mai completata, che di certo avrebbe rappresentato un vero e proprio punto focale per il contesto urbanistico di riferimento. Purtroppo, a seguito di uno scellerato intervento effettuato sulla facciata dell’edificio negli anni sessanta del secolo scorso, tale base è stata per buona parte distrutta, trasformandone i resti in un inutile sperone. La facciata non presenta elementi di particolare interesse: eccezion fatta per il portale d’ingresso ad arco, l’intera superficie è articolata, sin dagli inizi del secolo, in riquadri di pessimo gusto. L’interno della chiesa è a pianta unica, coperta da una grande volta a botte, con unghie che consentono il raccordo tra le lunette e la volta stessa; all’interno delle lunette sono state ricavate piccole aperture per illuminare l’ambiente.

La realizzazione di edifici ad aula è tipica delle strutture ecclesiastiche francescane: basti pensare che il primo conformato secondo questo schema è la Basilica di Assisi. La gran sala serviva a raccogliere e riunire i fedeli in un unico spazio e spesso le pareti che la cingevano dovevano raccogliere le storie del Santo. L’impianto a navata unica priva di transetto, quindi, assume valore di tratto distintivo di quest’ordine, specie nel periodo tardomedievale. La realizzazione della volta a botte lunettata  a conclusione dell’aula, nella chiesa di Mondragone ha imposto la presenza di spesse pareti laterali, ognuna “smaterializzata” con la creazione di sei aperture ad arco con cornici in piperno.

All’interno delle arcate sono posti moderni e semplici altari, sormontati da nicchie contenenti statue di santi; questi altari hanno sostituito i preesistenti, probabilmente risalenti al XVII secolo. È documentata in questo periodo, infatti, la presenza, all’interno delle arcate, di altari con quadri di santi in cornici e decorazioni di stucco. Tali altari modificati, qualcuno sostituito nella prima metà del XIX secolo, sono stati “smontati” negli anni sessanta del Novecento; rispetto agli attuali risultavano essere invasivi e stridenti con l’austera semplicità dell’ambiente.

Quest’ultimo si distingue per la particolare propensione prospettica, amplificata dalla gran volta a botte che lo sormonta e che trova il suo punto focale nel coro, ove si celebrano i riti sacri, separato dalla navata da un arco che segue il profilo composito dei piedritti. La continuità tra arco e piedritti è interrotta da una cornice che scorre lungo le pareti della navata e del coro. L’abside è a pianta poligonale, coperta con una volta suddivisa in spicchi a mezzo di una serie di nervature poste agli angoli delle pareti che delimitano l’ambiente e salgono dal pavimento, sino a raggiungere la sommità della volta. Questi elementi decorativi, di chiara reminiscenza medievale, conferiscono all’ambiente quel carattere di ascensionalità interrotto soltanto da una cesura orizzontale, costituita dalla cornice che dalla navata si estende e si conclude in quest’ambiente. Come per la volta a botte, si è in presenza di elementi architettonici lontani dal periodo in cui è stata realizzata la fabbrica religiosa; se per le nervature si può trovare riscontro nell’architettura gotica, per la copertura si giunge addirittura ad esempi di architettura romanica.

La commistione tra elementi del passato non denota l’assenza di riferimenti con l’architettura del tempo, inscrivibili nell’ambito di un ben definito movimento artistico, che si diffuse nel Regno di Napoli dalla metà del XV secolo: l’architettura catalana, introdotta nel regno dai sovrani aragonesi, in particolare Alfonso il Magnanimo (1442-1458). Egli, infatti, fece arrivare dalla catalogna numerose maestranze, che importarono uno stile tipico di quella regione della Spagna, meglio conosciuto come “gotico catalano”; ciò giustifica anche il notevole ritardo avuto nella capitale del Regno nell’acquisizione delle nuove forme artistiche del Rinascimento italiano.

Le sperimentazioni di questo stile si hanno maggiormente in architettura, dove viene sostanziata la teoria che il Lavedan definisce “avidité spatial”; si tratta, in sostanza, di una dinamica costruttiva che realizza strutture che si estendono in larghezza più che in altezza, rinnegando il simbolismo ascensionale che ha contraddistinto per secoli soprattutto l’architettura gotica d’Oltralpe.

Testi di Francesco Miraglia & Corrado Valente
Foto di Angelo Razzano
crosschevron-right linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram